La storia di Bandiougou
Mi chiamo Bandiougou Diwara e sono nato a Bamako, la capitale del Mali, in Africa. Prima di diventare un paese indipendente, nel 1960, il Mali era una colonia francese. Lì, i cognomi vengono dati in base alla storia della propria famiglia, alle professioni svolte in passato o al ruolo che si aveva nella società. Il mio cognome, Diwara, significa persona leale, colui che non mente e che è fidato. Questo perché i miei antenati erano i sovrani di Kingi, un antico regno da cui poi è nato il Mali. Sono cresciuto trascorrendo una parte dell’anno in città e una parte nella regione rurale della mia famiglia. Durante la stagione delle piogge, che di solito in Mali dura da giugno a novembre, andavo con i miei genitori a coltivare la terra. Mi piaceva molto spostarmi e trascorrere del tempo in campagna perché imparavo cose nuove sia della natura sia della mia cultura di origine. Nel 2012 in Mali hanno iniziato ad esserci dei problemi politici, che sono sfociati in un colpo di stato per cacciare il Presidente. Questa situazione di forte tensione portò allo scoppio di una guerra che di fatto non si è mai conclusa e che ha portato una grande instabilità. Il mio Paese non è considerato un luogo sicuro e il governo italiano sconsiglia ai suoi cittadini di andare in Mali. Dopo il colpo di stato, nel 2013 ho iniziato a pensare di andare via da lì, per trovare un lavoro e guadagnare un po’ di soldi per me e la mia famiglia. Sono andato in Algeria dove sono rimasto per due anni, pensando poi di tornare in Mali per aprire un piccolo negozio di elettronica. In Mali però la situazione era ancora molto pericolosa, così ho deciso di raggiungere l’Europa, come tante altre persone nella speranza di avere una vita migliore. Per raggiungere l’Italia, sono stato prima in Libia, poi ho attraversato il Mar Mediterraneo di notte con la nave, arrivando finalmente in Sicilia. All’inizio era tutto nuovo e diverso. Ero contento di essere arrivato in Italia, ma non capivo bene tutto quello che stava succedendo. Sono stato ospitato in un centro di accoglienza nella cittadina di Scicli, al sud della Sicilia. Lì c’erano tante persone che si occupavano di me, ma io ricordo soprattutto Valeria che mi ha aiutato ad imparare l’italiano e ad andare a scuola. Mi piaceva tantissimo studiare. Studiavo a casa e studiavo a scuola perché volevo imparare in fretta tutte quelle cose che i ragazzini italiani sapevano ed io ancora no.
Poi un giorno, è arrivata una bellissima notizia: mi sarei trasferito a Palermo. Ero molto contento perché finalmente potevo andare in una scuola più grande e conoscere nuovi compagni. Ho iniziato così la terza media. I professori all’inizio mi dicevano che secondo loro non avrei potuto fare l’esame di terza media perché non ero ancora abbastanza preparato, ma io mi sono impegnato tantissimo e ci sono riuscito! Erano tutti molto orgogliosi di me. Dopo le medie mi sono iscritto al liceo e ho fatto due anni in uno. Vivere a Palermo mi piaceva, anche se a volte le persone per strada o a scuola mi trattavano male per il colore della mia pelle. Un giorno sono venuto a sapere che c’era la possibilità di andare a studiare in una scuola particolare che si trovava nel nord Italia, vicino Trieste. In questa scuola c’erano sono studenti da tanti paesi del mondo e tutte le materie si studiavano in inglese. Da un lato mi sarebbe piaciuto molto andare in un posto così, ma dall’altro ero spaventato perché non conoscevo bene l’inglese e sapevo quanto fosse difficile esprimersi in una lingua diversa dalla propria. Inoltre non credevo che sarei mai stato selezionato, c’erano tanti altri ragazzi molto bravi. Alla fine però sono scelto, e con un po’ di timore e curiosità, sono partito per la nuova scuola. È stata un’esperienza molto bella, anche qui dovevo studiare molto, ma ero contento di poterlo fare insieme ad altri ragazzi con storie diverse dalla mia. Mi sono sentito a mio agio a non essere l’unica persona straniera, ma uguale a tutti gli altri studenti. Finita la scuola, ho deciso di tornare a vivere a Palermo, che ormai è la mia casa. A Palermo lavoro come educatore per aiutare tanti ragazzi che magari hanno avuto un’esperienza simile alla mia. Insieme ad altri amici provenienti da altri paesi africani come il Gambia, la Guinea, il Burkina Faso e il Marocco abbiamo creato un’associazione che si chiama “Giocherenda”. Anche se sembra italiana, Giocherenda è una parola della lingua Pulaar che si parla in Guinea e che vuol dire “Solidarietà, gioia del fare insieme, condivisione”. Abbiamo pensato che fosse il nome perfetto per la nostra linea di giochi fatti a mano. Sono giochi di legno, stoffa e immagini, che servono a stimolare il racconto, a creare delle storie da condividere con le persone, a raccontare il proprio passato e le speranze per il futuro.
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