La storia di Alì
Mi chiamo Alì e vivo in Italia da molto tempo, esattamente dal 1978. Sono nato in Somalia, dove ancora oggi vive gran parte della mia famiglia. Sono venuto in Italia perché i miei genitori desideravano che studiassi medicina in una buona università e quelle italiane erano rinomate per fornire un’ottima istruzione. Fui molto felice di questa opportunità, anche perché capivo che la mia era una possibilità che in pochi avevano. Arrivato in Italia me ne sono innamorato: qui il clima è piacevole, è un paese ricco di cultura e le persone sono molto socievoli. All’università è stato facile per me adattarmi. Sia gli studenti che i professori erano curiosi di conoscere le mie origini e la mia storia e apprezzavano il fatto di passare del tempo con me. Io, dalla mia parte, mi sono sempre impegnato moltissimo nello studio, cercando di fare ogni giorno il meglio che potevo. Una volta terminata l’università, ho scelto di rimanere in Italia e mi sono adoperato per trovare opportunità per la specializzazione. All’inizio è stato un po’ difficile trovare la mia strada, perché rispetto ai laureati in medicina che studiavano nella loro città di origine, avevo meno persone disposte ad aiutarmi ad accedere al percorso specializzante. Questo però non accadeva solo a me in quanto africano, ma a molti degli studenti “fuori sede”, soprattutto quelli provenienti dal sud Italia. Oggi sono un medico in un grande ospedale italiano e nella mia carriera ho curato migliaia di persone italiane e straniere. Mi sono sentito accolto nella società italiana e ho incontrato molte persone pronte ad aiutarmi nel mio percorso.
La mia è stata un’esperienza positiva, tanto che ho scelto questo paese per creare la mia famiglia e far nascere e crescere i miei figli. Essendo un immigrato, sono molto sensibile al tema dell’inclusione sociale delle persone straniere. Nonostante mi adoperi affinché esse possano avere le mie stesse opportunità e godere della stessa accoglienza che ho ricevuto, mi rendo conto che la situazione sia cambiata drasticamente. A differenza di quando sono arrivato io in Italia, la società è meno aperta ad accogliere e ha posizioni più drastiche rispetto ai temi dell’integrazione. È pur vero che questo è dovuto in gran parte ad un cambiamento nelle dinamiche migratorie: mentre fino a 30-40 anni fa le persone straniere in Italia erano poche, adesso sono molti i giovani e le giovani con un basso livello di scolarizzazione e poca chiarezza sul loro futuro che migrano in Italia. Migrare in Italia non basta per assicurarsi un futuro migliore, così come alla nostra società non basta fornire un alloggio ed un corso di italiano per aiutare davvero queste persone. Occorre investire affinché esse ricevano una formazione, una prospettiva, una luce. Solo investendo su di loro potremo creare davvero le condizioni necessarie perché la nostra società si evolva e accolga la ricchezza della multiculturalità e della diversità, esattamente come un tempo è stato fatto con me. Cosicché, potendo accedere alle giuste risorse e agli strumenti per evolversi come esseri umani, anche le persone straniere in Italia possano arricchire al massimo la nostra società.
La mia è stata un’ esperienza positiva, tanto che ho scelto questo paese per creare la mia famiglia e far nascere e crescere i miei figli.
Alì
La storia di Amrita

Mi chiamo Amrita e sono cresciuta a Calcutta, in India, dove ho conseguito una laurea in Botanica alla Annamalai University. Il mio sogno più grande era quello di fare un dottorato in biologia perché volevo contribuire a rendere migliore l’ambiente e la società. Mentre studiavo, ho deciso di prendere lezioni di italiano, perché sin da piccola ho familiarizzato con l’Italia grazie ai racconti di mio nonno che era un appassionato di storia. Racconti sull’impero romano o l’imperatore Nerone hanno suscitato in me un grande interesse per questo lontano paese. Imparando la lingua mi sono innamorata profondamente anche dell’arte, della cultura e della letteratura italiana e desideravo tanto un giorno, poterla visitare. Dopo la laurea, ho fatto un concorso di lingua italiana ed ho vinto una borsa di studio per 6 mesi presso l’Università per Stranieri di Perugia. Lì sono entrata in contatto con tante culture diverse e il fatto di condividere una lingua comune ha reso possibile avvicinarmi a persone con background diversi dal mio. Da appassionata di letteratura, che a mio parere riflette la ricchezza e bellezza di ogni cultura, ho iniziato a fare ricerche sugli autori italiani più importanti e a tradurre i loro scritti in bengalese. Terminati gli studi all’università di Perugia sono tornata a Calcutta, dove per 4 anni ho fatto l’insegnante di lingua italiana. Nel frattempo, spinta dalla voglia di voler diffondere una nuova cultura, ho contattato anche riviste locali per pubblicare le mie traduzioni di importanti scrittori dall’italiano al bengalese. Quando ero in India, il pensiero dell’Italia non mi lasciava mai, per questo facevo tutte queste cose, non volevo dimenticarmi di tutto ciò che avevo imparato.
Così, nel 2017 mi sono trasferita a Firenze per seguire un corso di perfezionamento di lingua e cultura italiana presso il Centro Internazionale Studenti Giorgio La Pira. A Firenze mi sono sentita subito a casa e ho deciso di rimanere a lavorare qui con associazioni e cooperative del territorio per poter collaborare come mediatrice interculturale. Il mio lavoro mi piace molto, soprattutto perché posso contribuire a facilitare l’integrazione delle persone che provengono dal mio stesso paese e si affacciano in un ambiente diverso, una lingua che non capiscono e servizi che non conoscono. Nonostante la mia passione e i sentimenti che nutro per l’Italia non sono stata immune alle difficoltà e ai pregiudizi. Riuscire a trovare un lavoro per poter vivere regolarmente in Italia, o trovare una casa in affitto – dove spesso i proprietari preferivano inquilini italiani – all’inizio non è stato facile. Le persone erano diffidenti e facevano fatica ad aprirsi a una nuova cultura. A volte è stato veramente faticoso e sconfortante. Io che amavo così tanto l’Italia mi sentivo frustrata e lo trovavo profondamente ingiusto. Forse le persone hanno solo paura, ma non si rendono conto di quali effetti i loro comportamenti possono avere sulle persone straniere, le quali si sentono spesso escluse dallo stesso paese in cui hanno scelto di vivere. Tutto questo però, è stato un motivo in più per me, per promuovere il dialogo interculturale per cercare di eliminare pregiudizi attraverso una maggiore consapevolezza.
Sono convinta che solo la conoscenza reciproca aiuti a prevenire il razzismo e la discriminazione.
Amrita Chaudhuri
La storia di Aqsa

Mi chiamo Aqsa Hussain. Vengo dal Pakistan, il quinto stato più popoloso di tutto il mondo. Sono nata nella città di Peshawar, che tutti chiamano la “città dei fiori”, ma non sempre la bellezza dei fiori la puoi qui vedere tra la gente. Essere una donna in Pakistan è davvero difficile. Avere riconosciuta la tua libertà è impossibile. Io sono sempre stata un po’ ribelle e a soli dieci anni ho iniziato a fare boxe e judo. In Pakistan nessuno accetta che le donne partecipino a questi sport, ma io ho continuato a giocare come un ragazzo. Ho fatto molte lotte e tanti allenamenti. Mio papà mi ha aiutata tanto e sono diventata la campionessa della nostra regione. Ero la prima ragazza che ha iniziato a fare boxe nella nostra città e tutti i media e i giornali locali hanno iniziato a raccontare di me e del mio talento. Pensate a quante persone erano contrarie? Ero molto spaventata perché da lì a poco io e la mia famiglia abbiamo ricevuto minacce di arresto e addirittura di morte se non avessi smesso. Ma io non mi sarei mai arresa perché, anche se questo mi preoccupava, volevo diventare campionessa mondiale. Volevo giocare per la bandiera del mio Paese a livello mondiale e questo sarebbe stato il mio orgoglio più grande. Se da un lato ero felice e ambiziosa, dall’altro le minacce continue mettevano comunque paura. Continuavo a chiedermi “Ma perché sono nata donna?”, “Perché non sono un ragazzo?” Un giorno papà mi ha fermata e mi ha detto: “Qualunque cosa accada, tu sei molto forte e non perderemo la nostra speranza. Continueremo la nostra lotta e speriamo che un giorno avremo la possibilità di mostrare il tuo talento”. Dopo tanti anni, con allenamenti e tanta pazienza, finalmente ho avuto la possibilità di uscire dal mio Paese. Ricordo che qualcuno ha detto a papà che, in cambio di soldi, avrebbero cercato di ottenere il visto e mi avrebbero accompagnata ai campionati di boxe in Germania.
Immaginate quanto potevo essere felice? Beh, in quel momento papà, nonostante la povertà che vivevamo, ha venduto tante cose e sono partita verso l’Europa. Pensavo che il giorno più bello della mia vita fosse arrivato ma la cosa più straziante è stata che ci hanno imbrogliati: non c’erano campionati! Hanno fatto tutte le cose finte e io ho pianto molto, ma i miei pensieri andavano alla mia famiglia, che aveva lottato tanto per me. Non dovevo arrendermi. Ho quindi deciso di correre il rischio e sono stata alcune notti lì senza aiuto. Poi alcune persone mi hanno suggerito di andare in Italia, dicendomi che lì sarei stata meglio e subito mi hanno indicato un bus da prendere dalla Germania. Arrivata qui sono stata prima in un campo per rifugiati a Orte e ho subito dopo iniziato a studiare la lingua italiana. Pian piano, raccontando la mia storia, sono stata accettata un club di boxe in Italia. Il mio sogno si stava realizzando. Con la speranza, la lotta e il sostegno della famiglia puoi ottenere tutto ciò che desideri, non importa se sei una ragazza o un ragazzo. L’Italia mi ha dato poi i documenti e sono stata trasferita in un altro campo a Monterotondo, a Roma. Qui ho iniziato a lavorare e mi son sentita accolta come in una famiglia. In particolare, due persone mi hanno aiutato tantissimo: il mio insegnante Franco e la mia insegnante Silvia, una mamma per me. Qui in Italia ho sposato Sami, un ragazzo di grande talento che è venuto per giocare nella squadra di hockey della Roma. Nel 2022 è nato il nostro bambino iLhan e oggi sto vivendo la vita migliore che ogni donna desidera. Non appena il mio bambino sarà in grado di stare da solo, ricomincerò a fare boxe e realizzerò i miei sogni. Gli racconterò che sognare ti aiuta e che ogni ragazza che vuole fare qualcosa può avere un sostegno importante, come quello che ho ricevuto io dal mio papà in Pakistan e dalla mia nuova famiglia in Italia.
Essere una donna in Pakistan è davvero difficile.
Aqsa
La storia di Bandiougou

Mi chiamo Bandiougou Diwara e sono nato a Bamako, la capitale del Mali, in Africa. Prima di diventare un paese indipendente, nel 1960, il Mali era una colonia francese. Lì, i cognomi vengono dati in base alla storia della propria famiglia, alle professioni svolte in passato o al ruolo che si aveva nella società. Il mio cognome, Diwara, significa persona leale, colui che non mente e che è fidato. Questo perché i miei antenati erano i sovrani di Kingi, un antico regno da cui poi è nato il Mali. Sono cresciuto trascorrendo una parte dell’anno in città e una parte nella regione rurale della mia famiglia. Durante la stagione delle piogge, che di solito in Mali dura da giugno a novembre, andavo con i miei genitori a coltivare la terra. Mi piaceva molto spostarmi e trascorrere del tempo in campagna perché imparavo cose nuove sia della natura sia della mia cultura di origine. Nel 2012 in Mali hanno iniziato ad esserci dei problemi politici, che sono sfociati in un colpo di stato per cacciare il Presidente. Questa situazione di forte tensione portò allo scoppio di una guerra che di fatto non si è mai conclusa e che ha portato una grande instabilità. Il mio Paese non è considerato un luogo sicuro e il governo italiano sconsiglia ai suoi cittadini di andare in Mali. Dopo il colpo di stato, nel 2013 ho iniziato a pensare di andare via da lì, per trovare un lavoro e guadagnare un po’ di soldi per me e la mia famiglia. Sono andato in Algeria dove sono rimasto per due anni, pensando poi di tornare in Mali per aprire un piccolo negozio di elettronica. In Mali però la situazione era ancora molto pericolosa, così ho deciso di raggiungere l’Europa, come tante altre persone nella speranza di avere una vita migliore. Per raggiungere l’Italia, sono stato prima in Libia, poi ho attraversato il Mar Mediterraneo di notte con la nave, arrivando finalmente in Sicilia. All’inizio era tutto nuovo e diverso. Ero contento di essere arrivato in Italia, ma non capivo bene tutto quello che stava succedendo. Sono stato ospitato in un centro di accoglienza nella cittadina di Scicli, al sud della Sicilia. Lì c’erano tante persone che si occupavano di me, ma io ricordo soprattutto Valeria che mi ha aiutato ad imparare l’italiano e ad andare a scuola. Mi piaceva tantissimo studiare. Studiavo a casa e studiavo a scuola perché volevo imparare in fretta tutte quelle cose che i ragazzini italiani sapevano ed io ancora no.
Poi un giorno, è arrivata una bellissima notizia: mi sarei trasferito a Palermo. Ero molto contento perché finalmente potevo andare in una scuola più grande e conoscere nuovi compagni. Ho iniziato così la terza media. I professori all’inizio mi dicevano che secondo loro non avrei potuto fare l’esame di terza media perché non ero ancora abbastanza preparato, ma io mi sono impegnato tantissimo e ci sono riuscito! Erano tutti molto orgogliosi di me. Dopo le medie mi sono iscritto al liceo e ho fatto due anni in uno. Vivere a Palermo mi piaceva, anche se a volte le persone per strada o a scuola mi trattavano male per il colore della mia pelle. Un giorno sono venuto a sapere che c’era la possibilità di andare a studiare in una scuola particolare che si trovava nel nord Italia, vicino Trieste. In questa scuola c’erano sono studenti da tanti paesi del mondo e tutte le materie si studiavano in inglese. Da un lato mi sarebbe piaciuto molto andare in un posto così, ma dall’altro ero spaventato perché non conoscevo bene l’inglese e sapevo quanto fosse difficile esprimersi in una lingua diversa dalla propria. Inoltre non credevo che sarei mai stato selezionato, c’erano tanti altri ragazzi molto bravi. Alla fine però sono scelto, e con un po’ di timore e curiosità, sono partito per la nuova scuola. È stata un’esperienza molto bella, anche qui dovevo studiare molto, ma ero contento di poterlo fare insieme ad altri ragazzi con storie diverse dalla mia. Mi sono sentito a mio agio a non essere l’unica persona straniera, ma uguale a tutti gli altri studenti. Finita la scuola, ho deciso di tornare a vivere a Palermo, che ormai è la mia casa. A Palermo lavoro come educatore per aiutare tanti ragazzi che magari hanno avuto un’esperienza simile alla mia. Insieme ad altri amici provenienti da altri paesi africani come il Gambia, la Guinea, il Burkina Faso e il Marocco abbiamo creato un’associazione che si chiama “Giocherenda”. Anche se sembra italiana, Giocherenda è una parola della lingua Pulaar che si parla in Guinea e che vuol dire “Solidarietà, gioia del fare insieme, condivisione”. Abbiamo pensato che fosse il nome perfetto per la nostra linea di giochi fatti a mano. Sono giochi di legno, stoffa e immagini, che servono a stimolare il racconto, a creare delle storie da condividere con le persone, a raccontare il proprio passato e le speranze per il futuro.
Insieme ad altri amici provenienti da altri paesi africani come il Gambia, la Guinea, il Burkina Faso e il Marocco abbiamo creato un’associazione che si chiama giocherenda.
Bandiougou Diwara
La storia di Cesar

Mi chiamo Cesar Augusto Cuenca. Mio papà, appassionato di storia, ha voluto darmi il nome dell’imperatore romano Cesare Augusto. Non ci crederete ma il suo nome, quello di papà, è Ottavio, come il politico romano nonché padre di Augusto. Pensate quanto piacere possa provare a raccontare questo aneddoto qui a Roma! In Italia sono arrivato nel 2019. Sono nato e cresciuto in Colombia, un Paese in sud America e il più popoloso di tutta l’America Latina, dopo il Messico e il Brasile. Sono un ingegnere informatico e delle telecomunicazioni. Ho ricoperto questo ruolo per il governo colombiano negli anni 2010-2018. Subito dopo ho deciso di trasferirmi qui in Italia per un periodo limitato grazie a un programma imprenditoriale per l’esportazione del caffè. Lo sapevate che il paesaggio culturale del caffè della Colombia è patrimonio dell’UNESCO? Ai tempi avevo avviato una piccola azienda per commerciare e vendere il caffè ed ero felicissimo di aver preso questa strada. Purtroppo, come ben sapete, il Coronavirus ci ha bloccati tutti. Non potevamo più muoverci liberamente, spostarci o organizzarci nei nostri viaggi e, subito dopo la fine della pandemia, abbiamo vissuto tanti altri problemi economici. Ho quindi chiuso la mia azienda e, per un periodo, sono rientrato in Colombia. Con l’aumento della violenza nel mio Paese, non potevo più restare lì. Dovevo trovare una soluzione per me e per la mia famiglia e far sì che tutti noi potessimo stare al sicuro. Ho quindi deciso di ritornare in Italia, ma inizialmente ho lasciato mia moglie e le mie tre figlie in Colombia.
Stare in Italia da solo era veramente difficile. Loro mi mancavano tantissimo e le procedure per farle arrivare da me sembrano interminabili. Esiste qui un procedimento, il ricongiungimento familiare, che aiuta i cittadini stranieri in Italia ad ottenere i documenti per far venire qui i propri cari. Ma per presentare questa richiesta devi avere determinati documenti e requisiti e per molto tempo io non potevo. Oggi però sono felice perché ce l’ho fatta e tutta la mia famiglia è con me in Italia. Mia moglie sta iniziando a conoscere la cultura italiana, come ho fatto io in passato. Abitare in un nuovo Paese significa anche conoscere la storia, le abitudini e i modi di fare della popolazione. Anche le mie figlie, tutte di età diversa tra loro, si stanno pian piano ambientando. Affrontare questi cambiamenti in un posto lontano da casa tua non è mai facile, ma avere la famiglia accanto ti rende più forte. Ti senti meno solo. Non sai mai cosa succederà nel futuro ma noi crediamo che insieme riusciremo a rispondere a tutte le prossime sfide: la nuova scuola per le ragazze, lo studio della lingua italiana, la ricerca di un lavoro e la ricerca della casa. Come cittadini stranieri trovare una casa è davvero tanto complicato. Chiedono tantissime garanzie e ci sono tante difficoltà. Ad ogni appuntamento per vedere una casa mi sento dire “Ma tu che documenti hai?”, “Dimostrami che sei un ingegnere!”, “E con il tuo lavoro riesci a garantire tutte le spese?” Sembra che noi cittadini stranieri dobbiamo dimostrare mille e mille cose. A volte sento un grosso peso addosso. Noi colombiani siamo però molto ottimisti e io non smetto di sperare. Penso che presto tutto sarà più semplice e noi potremo sentirci veramente a casa.
Sembra che noi cittadini stranieri dobbiamo dimostrare mille e mille cose.
Cesar
La storia di Deada

Mi chiamo Deada, ma qui in Italia in tanti mi chiamano Ada e vivo a Firenze. Sono nata in Albania, un paese che si trova di fronte alla Puglia, dall’altro lato del mare, molto vicino all’Italia. La città dove ho vissuto per tanti anni, prima di venire in Italia, si chiama Durazzo. Durazzo è la terza città dell’Albania ed è una località molto famosa per il turismo e per il mare. In Italia è conosciuta perché l’8 agosto del 1991 dalla mia città partì la nave Vlora che era diretta a Bari, in Italia, e che aveva a bordo quasi 20.000 persone che scappavano dall’Albania alla ricerca di una vita migliore. L’Albania ai quei tempi era infatti il paese più povero d’Europa, non si trovava lavoro e c’era una forte crisi sociale e politica. Era estate, molti italiani erano in vacanza, ma tutti coloro che erano rimasti in città si recarono al porto di Bari per portare vestiti, cibo e medicine e aiutare i tanti cittadini del mio Paese che avevano viaggiato tutti ammassati uno sull’altro per più di 10 ore. Era la prima volta che succedeva una cosa di questo tipo in Italia ed è ancora oggi ricordato come un evento unico e molto importante quando si parla di migrazione. Anche io sono venuta in Italia per avere una vita migliore, ma per fortuna ho potuto farlo in una maniera diversa. Sono infatti arrivata in Italia in aereo per motivi di studio. Io già da piccola capivo l’italiano e avevo imparato tante parole perché in Albania si vedono tutti i canali della televisione italiana, dai cartoni animati alle serie tv. Ecco perché quando ho deciso di iscrivermi all’Università ho pensato subito all’Italia. Sono andata a studiare Economia e Commercio a Pisa e quando sono arrivata ho scoperto che erano tantissimi gli studenti albanesi come me. Questa cosa era bella perché mi sentivo a casa, ma anche un po’ strana perché non me lo aspettavo. Inoltre volevo fare amicizia con i ragazzi italiani e scoprire di più di questo nuovo paese, ma all’inizio non riuscivo a conoscere nessuno e stavo solo con i miei connazionali. I primi momenti in Italia sono stati quindi difficili. Anche se sapevo un po’ l’italiano facevo tanta fatica a capire tutto quello che i professori dicevano durante le lezioni e a studiare per gli esami. Il sistema scolastico italiano è infatti molto diverso da quello albanese. Ho dovuto fare tanti corsi di lingua e studiare tantissimo. Spesso mi sentivo in difficoltà e cercavo sempre di guardare le persone in faccia per capire se stavo dicendo una cosa giusta o sbagliata.
Ero convinta della mia scelta di venire qui, ma a volte mi sentivo sola. Il mio paese non era lontano, ma non potevo tornare spesso a trovare i miei familiari perché il biglietto aereo costava e io non sempre avevo i soldi per poterlo comprare. Però alla fine ho resistito e sono riuscita a finire l’Università e poi ho iniziato a cercare un lavoro. Sono un’albanese di religione musulmana e ho deciso di portare il velo. Molte mie amiche che hanno fatto questa stessa mia scelta hanno avuto dei problemi per questa decisione perché la gente a volte ha dei pregiudizi nei confronti delle donne con il velo. Pensano che siano delle donne che non sono capaci di farsi rispettare, che sono sempre controllate dal padre o dal marito e vengono isolate. Fanno molta fatica a trovare un lavoro e anche quando lo trovano si tratta sempre di lavori più umili e faticosi, con pochi contatti con le altre persone. Io sono sempre stata convinta della mia scelta e ho sempre portato il velo senza nessun problema. Questo mi ha permesso di non soffermarmi sugli sguardi delle persone che incontravo per strada e di non rimanerci male di fronte a dei commenti poco gentili. Sono anche riuscita a trovare un bel lavoro in un bed & breakfast. Per andare a lavorare facevo ogni giorno una strada in mezzo al verde a piedi. Incontravo ogni giorno una signora che faceva anche lei quel percorso. Un giorno iniziamo a chiacchierare e cominciamo così a conoscerci meglio. Dopo qualche tempo mi propone di iniziare a lavorare con lei per aiutare le tante persone straniere che sono in Italia, ma che hanno avuto meno fortuna di me. Io all’inizio sono un po’ perplessa, ma poi decido di accettare. Sono molto contenta di questa scelta perché posso mettere la mia esperienza personale a disposizione di tante persone che vengono da paesi lontani, che parlano ligie straniere che hanno altre culture ma che adesso vivono tutte in Italia. Io ora sento di avere due case: una in Italia e una in Albania. Sono felice di andare a Durazzo a trovare la mia famiglia, ma sono contenta di tornare nella mia casa di Firenze. Proprio perché mi sento a casa in Italia ho fatto domanda per diventare ufficialmente cittadina italiana. Si tratta di un percorso molto lungo, devi aspettare tanti anni, raccogliere moltissimi documenti e avere molta pazienza! Spero di avere presto una risposta positiva dopo quasi 17 anni di vita in Italia.
Io ora sento di avere due case: una in Italia e una in Albania. Sono felice di andare a Durazzo a trovare la mia famiglia, ma sono contenta di tornare nella mia casa di Firenze
Deada
la storia di hasnain

Mi chiamo Hasnain Syed. Sono di origine afghana. L’Afghanistan è un Paese circondato da sole terre, senza alcun sbocco sul mare. Ormai da tanti anni conflitti e guerre colpiscono le persone e restare in questo posto è davvero difficile. Lo giuro! I miei fratellastri erano combattenti nel Paese e quando avevo solo dieci anni volevano unirmi a loro. Ero molto spaventato! Ma pensate a un bambino così piccolo con un’arma in mano?La mia mamma, donna molto coraggiosa, era contraria e per aiutarmi ha deciso che avrei dovuto presto lasciare l’Afghanistan. Il mio viaggio per arrivare fino a qui in Italia è durato tanti anni e sono stato illegalmente in quattro Paesi diversi. Avevo solo dieci anni ed ero terrorizzato. La mia mamma, non avendo un’alternativa, mi ha affidato a delle persone che si chiamano trafficanti. Queste persone approfittano delle paure e delle difficoltà di chi vuole lasciare il suo Paese e non ottiene i documenti per farlo, in cambio di soldi, promettono di facilitare il loro viaggio. Quel che poi succede, è ritrovarsi in situazioni molto difficili, poco sicure e preoccupanti. La mia mamma mi mancava tanto e non sapevo davvero come continuare e cosa fare. Camminavano tanto a piedi per le montagne, in condizioni igieniche difficili. Soffrivo e avevo paura. Cercavo protezione, ma non sapevo dove trovarla. Era terribile! Una notte ho preso un barcone insieme ad altra gente per arrivare in Grecia, la culla della civiltà occidentale e finalmente l’Europa. Di quella notte mi passano in mente scene allarmanti: timori, urla, il motore dell’imbarcazione rotto e l’acqua che arrivava addosso.
È stato molto pericoloso. Ho rischiato la mia vita ma sono riuscito ad arrivare in Grecia. Anche qui per noi cittadini stranieri è davvero sempre una scommessa: la lingua, la cultura, i documenti, il lavoro. Sono tantissime le cose da fare e gli ostacoli da superare. Ti senti solo e in mente hai tutti i ricordi di quel brutto viaggio passato e delle persone care che hai lontano.
Un giorno, stanco dello sfruttamento che vivevo nei campi agricoli greci, ho deciso di venire in Italia per poi raggiungere la Gran Bretagna. Era il 2017. Ancora una volta in maniera irregolare perché non c’era per me un’altra possibilità. Ma questa volta da solo, senza trafficanti. Ricordo di essermi attaccato a un tir direzione Beneveno. Eero vicino al motore. C’era caldissimo e il viaggio sembrava interminabile. Urlavo e nessuno mi sentiva. Ho rischiato nuovamente di rimetterci la mia vita, ma ce l’ho fatta e sono qui a raccontarlo. I primi mesi in Italia sono stati difficilissimi. Ho vissuto tre mesi per le strade. Non avevo un posto dove dormire o una casa calda in cui tornare ogni sera. L’aiuto di un signore italiano, che mi ha accolto per qualche giorno nella sua pizzeria dandomi ospitalità e cibo caldo, mi ha salvato la vita: la sua disponibilità mi ha convinto a restare in Italia nonostante il mio desiderio fosse raggiungere la Gran Bretagna. Pian piano la mia vita si è qui stabilizzata. Ho vissuto in delle tende vicino la stazione Ostiense, poi sono stato accolto in un centro d’accoglienza fino a quando ho iniziato anche a studiare. Nel 2019, giusto qualche anno fa, mi sono laureato qui a Roma in Scienze politiche e relazioni internazionali con una tesi che racconta un po’ la mia vita. Ho voluto ricordare quanto è importante stare a sentire noi migranti e cittadini stranieri quando si parla di migrazioni e delle leggi italiane sulla migrazione. Noi abbiamo qualcosa in più da raccontare perché abbiamo vissuto sulla nostra pelle tante cose. Vogliamo condividere le nostre storie e rispondere a quelle notizie, a volte non del tutto vere, che vi raccontano tanti giornali. Per questo, ho creato anche un’associazione insieme ad alcuni amici e oggi ne sono il Presidente. Il nome dell’Associazione è UNIRE e vuole mettere insieme tutte le persone rifugiate in Italia affinché si sentano meno sole e, insieme, possano far sentire la loro voce. Inoltre lavoro per proteggere al meglio i minori migranti che arrivano in Italia e in Europa fornendo a loro informazioni utili sui loro diritti e guidandoli ai servizi disponibili vicini a loro.
Vogliamo condividere le nostre storie e rispondere a quelle notizie, a volte non del tutto vere, che vi raccontano tanti giornali.
Hasnain
la storia di Mouhamed

Mi chiamo Mouhamed Ali, come il grande pugile Ali che forse qualcuno di voi già conosce e che è considerato il pugile migliore di tutti i tempi. Quando mio papà Moussa ha scoperto che presto avrebbe avuto un figlio, non ha avuto alcun dubbio e ha voluto chiamarmi proprio come lui, trasmettendomi la sua stessa passione: quella della boxe. Vivo in Italia da quando ero giovanissimo. Avevo soli vent’anni. Sono nato in Senegal, un Paese africano che si affaccia sull’Oceano Atlantico e qui, grazie ai duri allenamenti di boxe, sono diventato anch’io, proprio come Ali, un campione di pugilato. La vita in Senegal non era affatto facile e papà si è impegnato tanto per aiutarmi a non cadere in brutte tentazioni o in grossi problemi come la droga nella zona di Pikine, la mia città d’origine. Da piccolo non capivo perché papà mi costringeva ad addestramenti a ritmi incessanti, senza sosta e senza orari. Non avevo neanche il tempo di uscire con i miei amici il pomeriggio. Per questo ero molto arrabbiato con lui ma pian piano la passione per la boxe è così tanto cresciuta in me che sono diventato campione senegalese. Ho così deciso di realizzare un sogno ancora più grande: andare in Europa e prendere anche lì il titolo di campione. Ho quindi corso fino in ambasciata e ho ottenuto un documento per venire in Europa. Sono stato in Francia e, prima che il permesso per restare nel Paese scadesse, mi sono spostato da alcuni familiari in Italia. I primi momenti qui sono stati difficili, prima a Brescia e poi in una piccola città in Toscana, a Pontedera. Vivevo in un Paese senza conoscere la lingua e questo rendeva davvero tanto complicato comunicare con gli altri e farmi capire. Non riuscivo ad ottenere un permesso di soggiorno, quel documento che mi poteva garantire la possibilità di lavorare regolarmente e avere un regolare contratto di casa. Per anni sono stato un venditore ambulante per le strade e le spiagge di alcune città toscane, quello che tanti italiani chiamano “vu cumprà”.
Ho vissuto in una casa senza gas e senza luce ma non ho mai abbandonato il mio desiderio: diventare un campione di pugilato in Italia. Senza un documento non potevo unirmi alla squadra della nazionale ma, dopo il lavoro, andavo ogni sera in palestra ad allenarmi grazie al sostegno di tanti italiani che credevano in me e nei miei sogni e grazie al comune della città di Pontedera che mi ha tanto aiutato. Tantissimi migranti in Italia soffrono tra discriminazioni, episodi di razzismo e la paura di essere sempre clandestini e lontani dalla propria casa. È vero, credetemi. So quanto si è tristi in certe situazioni! Tutto sembra orribile e ti chiedi “Perché siamo venuti qui? Perché dopo aver abbandonato il nostro Paese, la famiglia e gli amici ci ritroviamo in un posto straniero ancora più poveri?” Ma sono sicuro che le cose possono cambiare, la vita può cambiare. Io che un giorno, di ritorno dal mio lavoro di venditore ambulante su un treno diretto verso casa, ho incontrato una giovane donna, quella che è diventata mia moglie e la mamma dei miei tre figli. Con lei abbiamo affrontato tante difficoltà, vivendo spesso in condizioni difficili ma nessuno può fermarti se decidi di lottare per realizzare il tuo sogno. Insieme abbiamo resistito e sono riuscito a ottenere quei documenti per partecipare ai campionati di boxe nazionali, diventando il primo senegalese campione di pugilato in Italia. Oggi per problemi fisici continuo ad allenare tanta gente, ma non posso più partecipare alle gare. Questo non mi ha fermato e sono diventato volontario della Croce Rossa italiana e per i Vigili del Fuoco. Negli anni ho mandato ambulanze, sedie a rotelle e tanto altro materiale utile per i disabili e i più fragili in Senegal, diventando “Ambasciatore della disabilità”. Quello che voglio dirvi è che realizzare un sogno è possibile nonostante le tante difficoltà e ho imparato che lo sport può essere uno strumento molto forte per combattere le discriminazioni e diffondere valori importanti come il rispetto reciproco e l’ascolto.
Quello che voglio dirvi è che realizzare un sogno è possibile nonostante le tante difficoltà e ho imparato che lo sport può essere uno strumento molto forte per combattere le discriminazioni
Mouhamed Ali
La storia di Najwa

Mi chiama Najwa, vengo dalla Siria e abito in Italia da quasi tre anni. Sono venuta in questo paese per fuggire dalla guerra che da circa 10 anni affligge il mio paese. Sono potuta venire in Italia grazie ai corridoi umanitari, coordinati dalla Comunità di Sant’Egidio. Certo, non è stato facile rientrare nel programma dei corridoi. Ho dovuto fare moltissimi colloqui e convincere gli operatori che selezionavano le persone da ricollocare che meritavo l’opportunità di costruire una nuova vita in un altro paese. Molte persone che hanno sofferto come me non hanno avuto questa opportunità. Il mio caso era speciale perché io non viaggiavo da sola, ma con mio figlio e senza un marito o un compagno. Ho divorziato da mio marito quando ero in Siria, in seguito ad un matrimonio problematico all’interno del quale ho subito maltrattamenti. Emozionata della nuova vita che mi aspettava in Italia, arrivo a Mantova il 24 settembre 2019. Non conoscevo la lingua italiana, nessuna persona e non avevo un lavoro. Sapevo di avere solo un anno per poter imparare l’Italiano e trovare un impiego dopodiché sarei rimasta sola in quanto le organizzazioni che mi hanno permesso di venire ed hanno accolto forniscono il loro supporto solo per questo breve periodo. Come se questa condizione non fosse già abbastanza complessa, è arrivata la pandemia da Coronavirus a complicare ulteriormente le cose. Ero molto preoccupata per il mio futuro e per quello di mio figlio. Il fatto che fossimo stranieri e non molto integrati rappresentava un ostacolo soprattutto per lui. A scuola infatti non riusciva a socializzare e si sentiva molto solo. Ciò che mi ha dato speranza e la spinta giusta è stato iniziare a frequentare una chiesa di quartiere. Io sono musulmana, ma per me e le persone della chiesa che mi hanno accolta non esiste differenza tra un musulmano e un cattolico.
Siamo tutti fratelli. Nella chiesa ho conosciuto molte persone che mi hanno aiutata ad imparare la lingua italiana facendomi leggere articoli di giornale e spronandomi ad avere conversazioni e mi hanno aiutata a trovare la strada giusta per me. È stata proprio una “sorella di chiesa” che mi ha iscritta ad un corso di digital literacy per donne rifugiate, ed è così che ho ottenuto l’opportunità di seguire un corso online in digital marketing.
Nonostante il corso, la mia vita a Mantova non mi offriva molto. Ho deciso che dovevo prendere in mano la situazione e dare una svolta ad una situazione di stallo. Mi sono impegnata così a trovare opportunità altrove e, grazie al supporto di un amico, mi sono trasferita a Padova, dove c’erano più opportunità. Ho iniziato a lavorare in un supermercato del centro e a seguire lezioni intensive di italiano, continuando ad impegnarmi nel corso in digital marketing. Ho superato l’esame di fine corso e grazie agli ottimi risultati, ho ottenuto una borsa di studio per frequentare un master online presso il Talent Garden di Milano. Sto per concludere il master e una volta finito avrò l’opportunità di trovare lavoro nell’ambito del digital marketing. Adesso parlo bene italiano, sono soddisfatta della mia vita e ho molte speranze per il mio futuro e per il futuro di mio figlio. Cos’è stato che mi ha dato la forza di andare avanti e dare una svolta alla mia vita? Sono molto grata alle organizzazioni che mi hanno aiutata a venire in Italia e ad avviare la mia vita, ma non mi sentivo bene sapendo di dipendere da loro e di non essere indipendente. Io volevo essere autonoma ed in grado di raggiungere i miei obiettivi con le mie forze. Ho creduto in me stessa e nelle mie capacità! Mi sono impegnata tanto nello studio e nel lavoro e questo mi ha ripagata.
Io sono musulmana, ma per me e le persone della chiesa che mi hanno accolta non esiste differenza tra un musulmano e un cattolico.
Najwa
La storia di Oxana e Dima

Un anno fa ho avuto l’occasione di vedere e vivere in prima persona una vicenda di accoglienza assolutamente positiva che vede come protagonisti una madre, Oxana, che lavora come badante da due anni per mia zia affetta da Alzheimer, e suo figlio Dima, entrambi provenienti dalla Moldavia. A marzo dello scorso anno Oxana è costretta a partire dall’Italia e tornare in Moldavia poiché sua madre, alla quale è affidato Dima, è risultata positiva al Covid e, dopo pochi giorni passati in ospedale, purtroppo muore. Dima, che ha meno di sei anni, si ritrova quindi senza casa e senza alcun familiare che possa occuparsi di lui, dato che sono tutti emigrati all’estero in cerca di lavoro.
Inoltre, i servizi sociali moldavi avvertono Oxana che se non fosse arrivata al più presto avrebbero portato suo figlio in un istituto; così, due giorni dopo, con l’aiuto della mia famiglia, parte per la Moldavia e, passate due settimane, atterra a Roma con il piccolo Dima. Una volta a Perugia, il bambino viene subito iscritto alla scuola dell’infanzia e viene affidato a mia zia l’incarico di insegnargli le parole basilari italiane, che il bimbo impara subito, riuscendo a comunicare con gli altri bambini in poco tempo. Ora Dima frequenta il primo anno di scuola elementare ed è perfettamente integrato all’interno della sua classe, sta imparando bene l’italiano e per mia zia rappresenta la medicina più efficace.
La storia di Pap

Mi chiamo Pap Khouma e sono un giornalista. Vivo in Italia dal 1984 e sono nato a Dakar, in Senegal. Quando ero piccolo Dakar era una città molto verde e noi bambini giocavamo tanto all’aria aperta. Di nascosto dai nostri genitori andavamo anche al mare. Quando ci scoprivano si arrabbiavano molto perché l’Oceano Atlantico, il mare intorno a Dakar, è molto mosso e pericoloso. Anche se in Senegal ci sono tanti dialetti le scuole erano tutte in francese. Per noi bambini era un po’ faticoso perché a scuola dovevamo parlare, scrivere e leggere in francese mentre a casa i nostri genitori ci parlavano nelle lingue locali. Era come vivere sempre due realtà diverse. Anche se poi da grande ho capito quanto fosse importante sapere tante lingue. Alla fine del liceo non ho potuto frequentare l’Università perché in Senegal le scuole universitarie sono a pagamento e la mia famiglia non poteva permettersi di farmi studiare. Questa situazione mi ha molto colpito e forse è stata alla base delle mie scelte di vita. Ho deciso infatti di lasciare il mio Paese. All’inizio sono rimasto in Africa e sono andato da alcuni cugini in Costa d’Avorio. Loro avevano un piccolo commercio di avorio, che ai tempi era molto richiesto e anche molto redditizio. Io ero contento di lavorare per loro: guadagnavo bene e potevo fare una bella vita con gli amici ed uscire la sera. Insomma mi godevo la vita come molti ragazzi giovani della mia età. Ad un certo punto però a causa delle continue febbri malariche che mi colpivano sono stato costretto a tornare in Senegal. All’inizio ero contento, ma poi è emersa di nuovo in me la voglia di andare a cercare fortuna in un altro paese. Pensavo di andare in Belgio, dove stavano cercando delle persone da formare all’attività di programmatore informatico che all’epoca stava muovendo i primi passi. Poi però ho deciso di venire in Italia. In quegli anni non era richiesto un visto per i senegalesi e quindi io sono potuto entrare come un turista, senza nessuna difficoltà o viaggi pericolosi. I primi mesi in Italia li ho passati nella zona di Rimini, al mare. C’erano tantissimi turisti e io guadagnavo vendendo degli elefantini di avorio vicino la spiaggia. Mi piaceva l’estate e tutte quelle persone in vacanza. Poi però è arrivato l’inverno e io non lavoravo più abbastanza così sono tornato di nuovo a casa. Avevo giurato a me stesso che sarei rimasto in Senegal con la mia famiglia, ma una volta rientrato mi sono reso conto che io ero cambiato e anche la mia città era cambiata nel frattempo.
Mi sentivo un estraneo e tutti i miei amici si chiedevano perché fossi rientrato a casa e non fossi rimasto in Europa. Ho cercato di resistere per un po’, ma poi la voglia di tornare in Italia ha prevalso. L’Italia degli anni ottanta era un paese che stava vivendo un grande cambiamento. Insieme a tanti altri amici immigrati, ad attivisti ed associazioni della chiesa abbiamo lottato per i diritti degli immigrati, perché potessero avere una vita dignitosa e soprattutto i documenti per poter vivere legalmente nel nostro Paese. Leggevo tanto. Mi piaceva e mi serviva per imparare bene la lingua, che è una cosa fondamentale per integrarsi in un nuovo paese e conoscerlo bene. Nel 1989 in Italia venne ucciso un rifugiato sudafricano che era venuto in Italia per scapare dal Regime dell’apartheid ma che non venne accolto. La sua morte provocò una serie di proteste contro il governo che non lo aveva protetto e molte manifestazioni per rivendicare i diritti dei lavoratori stranieri e denunciare lo sfruttamento a cui spesso erano sottoposti. Un giornale italiano mi chiese di fare un reportage sulla condizione dei lavoratori stranieri presenti in varie zone d’Italia. All’epoca non esisteva internet e il mondo della comunicazione era molto diverso. Tante cose non si sapevano e questa fu un’occasione moto importante, sia per me personalmente che per raccontare quello che stava succedendo in Italia e che molte persone ancora non sapevano. Da lì ho deciso che mi sarei impegnato per far si che l’Italia diventasse un paese capace di accogliere gli stranieri e che avrei aiutato tante persone come me ad imparare le leggi, i costumi e le abitudini di vita in Italia. Nel 1990 ho scritto anche un libro dove ho raccontato la mia esperienza di vita. Oggi dirigo una rivista che si occupa di letteratura migrante. Sono sposato con una donna italiana e ho due figli. La mia casa ora è a Milano, anche se amo molto tornare in Senegal per le vacanze. Purtroppo il razzismo è un fenomeno molto diffuso in Italia, ma anche in altri paesi europei. C’è sempre stato, anche se le cose sono migliorate rispetto al passato. Quello che però è molto grave è che certi comportamenti razzisti siano adottati da chi ci governa. Loro dovrebbero dare il buon esempio e fare di tutto per far sì che le persone italiane e straniere possano essere parte di una sola comunità che cresce e diventa più forte e solidale.
Un giornale italiano mi chiede di fare un reportage sulla condizione dei lavoratori stranieri presenti in varie zone d’Italia. Un giornale italiano mi chiede di fare un reportage sulla condizione dei lavoratori stranieri presenti in varie zone d’Italia.
Pap
La storia di Ramy
Mi chiamo Ramy Seif e sono nato in Egitto. Sono arrivato in Italia nel 2018 e attualmente lavoro come insegnante di sostegno in una scuola internazionale di lingua inglese a Roma. La lingua inglese è stato un elemento molto importante della mia vita. Quando ero piccolo e andavo a scuola non amavo quella materia e prendevo sempre dei voti bassi. La mia insegnante mi diceva che dovevo impegnarmi di più perché solo così avrei migliorato la mia conoscenza. Per me è diventata una sfida e quindi mi sono messo a studiare molto bene la lingua. Non solo sono diventato bravo, ma una volta diventato grande ho deciso che volevo diventare un insegnante di inglese. Mi sono quindi laureato in Lingua e Letteratura inglese all’università del Cairo e poi ho trovato lavoro come maestro di inglese in Egitto. Mi piaceva molto il mio lavoro anche se nelle scuole in Egitto le classi sono composte da tanti alunni, circa 60, e quindi è molto difficile seguire bene tutti i ragazzi. La vita in Egitto cominciava pian piano a diventare sempre più difficile. Chi aveva il potere politico lo esercitava in modo sempre più duro ed autoritario, c’erano continue lotte tra fazioni diverse che volevano prendere in mano il governo e anche molti scontri tra membri della comunità islamica e della comunità cristiana. Le persone giovani come me non avevano molte speranze di vivere in pace e di avere un lavoro sicuro e io cominciavo a pensare che forse sarei dovuto andarmene in un altro posto più sicuro per avere più chance. Un giorno mi capita l’opportunità di partecipare ad un programma di scambio e volontariato in Romania. Mi offrivano la possibilità di insegnare inglese a dei bambini rumeni e di conoscere meglio il paese. Sono stato molto contento di accettare ed è stata un’esperienza molto interessante. Sono stato circa un mese a Bucarest, una città che mi è piaciuta molto. Mi ero abituato a vivere in un posto sicuro e tranquillo e fare il mio lavoro senza continui controlli da parte del Governo. L’aereo che mi avrebbe riportato a casa dalla Romania faceva uno scalo a Roma.
Ero così preoccupato di tornare in Egitto che mi sono lasciato convincere dai miei amici e dalla mia famiglia che mi dicevano di provare a rimanere in Europa, come tanti altri membri della mia comunità. Così sono arrivato a Roma e non sono più andato via. Questi anni non sono stati facili. Vivo in un centro di accoglienza con altre 100 persone. Non ho molti amici. Spesso si pensa che le persone straniere facciano tutte amicizia tra di loro, ma non è sempre così. Io mi sento molto solo perché i miei compagni del centro hanno idee molto diverse dalle mie e non capiscono bene l’italiano e la cultura italiana. Anche gli italiani non sono sempre gentili con me, anzi a volte fanno finta di non capire quello che dico e vanno via come se gli stessi dando fastidio. Io sto ancora aspettando di sapere se, per la legge potrò rimanere in Italia. Sono passati più di tre anni, ma nessuno ancora sa dirmi nulla. Capisco che ci siano tantissime richieste da analizzare ma per una persona è molto difficile vivere senza documenti. Non posso mai lasciare l’Italia o andare in un altro paese e naturalmente non posso tornare a casa a trovare la mia famiglia perché rischio di perdere ogni diritto in Italia. Un grande problema dell’Italia è proprio la lentezza dei documenti e delle procedure. C’è però una cosa molto bella che mi piace dell’Italia: il mio lavoro. Da un anno lavoro infatti come insegnante di sostegno in una scuola internazionale. Anche se devo fare 2,5 ore di autobus all’andata e al ritorno sono molto felice di questo lavoro. Questo perché la scuola è come un posto perfetto dove tante persone da varie parti del mondo lavorano insieme con rispetto e attenzione. Inoltre tutti parlano piano e si fanno capire. Nella scuola mi sento realizzato sia sul piano personale che sul piano di lavoro. E’ difficile essere una persona straniera in Italia, ci sono tante forme di discriminazione e si pensa sempre che gli stranieri siano un problema e non un’opportunità. Quello però che io voglio insegnare ai miei studenti è che noi siamo tutti uguali e che la libertà individuale è importante, ma sempre nel rispetto reciproco e delle regole.
La storia di Solomon

Ciao a tutti voi di storiechecambianoilmondo,
mi chiamo Solomon e sono nato in Etiopia, Africa centro-occidentale. A 8 anni sono stato adottato da una famiglia italiana e attualmente vivo a Milano. Dei miei genitori naturali e di quel breve periodo vissuto in Etiopia ricordo poco. So che mio padre mori’ nella guerra tra Eritrea ed Etiopia che avvenne tra il 1998 e il 2000. Mia madre, non riuscendo a sfamare tutti i figli, aveva spesso attacchi di pazzia. Dopo un episodio drammatico in cui sono morti due mie fratellini, un nostro zio decise di portare me e altri 3 fratelli in un orfanotrofio ad Addis Abeba. Dopo due anni in orfanotrofio fummo adottati tutti e 4 da due famiglie italiane. Una era la mia, l’altra adottò gli altri due fratelli che ora vivono a Cesena.
Seppur tristi e drammatiche, le vicende e le modalità che mi hanno portato in Italia sono ben lontane da essere comparabili a quelle dei viaggi della speranza di cui si parla nel caso di migranti. Ma soprattutto, la mia permanenza in Italia e’ sicuramente un caso piu unico che raro. Sono infatti convinto che la mia in realtà sia una storia al limite del fiabesco. Ad oggi sono 21 anni che sono in Italia, e se non fosse per il colore della pelle non direste mai che non sono italiano. Ho iniziato le elementari a 8 anni, 2 anni in ritardo, ma ho recuperato un anno facendo terza e quarta assieme. Ho studiato in un liceo scientifico perché volevo diventare ingegnere. Ho passato il test di ingegneria al Politecnico di Milano in quarta liceo perché ero trepidante dal desiderio di entrarci.
Il percorso al Politecnico è stato liscio e molto piacevole tante’ che ho deciso di continuare a fare il dottorato dopo un anno di visiting in America. All’età di 29 anni vivo a Milano in un mio appartamento, ho la mia macchina e tra 4 mesi finisco il dottorato in Ingegneria dell’Automazione con tesi sulla guida autonoma di macchine per le operazioni nei vigneti. Come vi dicevo, la mia storia è al limite del fiabesco…
Ho deciso di condividere questa storia perché durante tutti questi anni non mi sono quasi mai approcciato seriamente all’argomento razzismo; forse qualche discussione/post sui social… ma non molto di più. Purtroppo è inevitabile che io sia stato vittima di episodi di razzismo fin da ragazzino. Secondo me, il motivo per il quale non ho vissuto troppo male questi episodi risiede principalmente nelle persone che avevo attorno e nella istruzione che ho avuto. Da ragazzino per ogni persona che mi trattava male per il colore della pelle ven’erano almeno dieci che mi dicevano di adorarla. Al liceo oltre alla pelle adoravano come ballavo e quanto bene sapessi la matematica e la fisica. In università adoravano la mia curiosità e la autoironia. Oggi guardo al razzismo come un problema che potenzialmente potrebbe essere d’intralcio alla carriera che vorrei… ma con il curriculum e il bagaglio di esperienze vissute fino ad oggi, non ho davvero paura.
Spero che questa storia sia utile alla causa di questa bellissima iniziativa.
Da ragazzino per ogni persona che mi trattava male per il colore della pelle ven’erano almeno dieci che mi dicevano di adorarla
SOLOMON
La storia di Tetiana
Mi chiamo Tetiana e sono una donna ucraina. Il mio Paese, che negli ultimi mesi avete visto in televisione per lo scoppio di una grande guerra, è un Paese bellissimo. Abbiamo mare, montagne, molte risorse e tanta bella gente. Il Paese è ricco di industrie e infrastrutture. In Ucraina ho vissuto fino al 2015 con la mia famiglia. Qui ho studiato, prendendo un diploma in Biologia e Geografia e poi sono andata all’Università, laureandomi in Scienze dei beni culturali. Nel 2013 mi sono sposata e qualche anno dopo sono venuta in Italia per raggiungere mio marito, che viveva qui già da qualche tempo: ho fatto una scelta per amore e per continuare a vivere accanto a lui, anche se questo voleva dire stare lontano dai miei cari. Dare ascolto al mio cuore ha infatti significato prendere le valigie e lasciare la mia casa. Sono arrivata in Sicilia, nel Sud Italia, tra il mare e il profumo degli agrumi, nel lontano 2015. Quando sono arrivata c’era già una comunità ucraina nel piccolo comune che mi ha accolta, ma mi sentivo spesso tanto sola e continuavo a ripetermi che prima o poi sarei tornata a casa. Tante persone del posto non sapevano neanche dove si trovasse l’Ucraina: “Ma da dove vieni?” “Ma scusami, devo guardare meglio sulla mappa. Non conosco il tuo Paese”. Mi sentivo spesso estranea e, nonostante i miei studi, in Italia non riconoscevano né accettavano il mio percorso. Questo è stato molto difficile per me. Sembrava che dovessi ricominciare da zero. Avevo bisogno dei documenti per restare nel Paese e per averli dovevo imparare al meglio la lingua italiana. Ho iniziato a frequentare le scuole medie e nel mentre lavoravo perché c’era l’affitto da pagare, la spesa e tanti altri costi da affrontare. Ma vi immaginate tornare a fare le scuole medie così grande? In più, trovare un lavoro in Italia, non conoscendo bene la lingua, è stato ancora più difficile. Tutto quello che avevo imparato in Ucraina era come se qui in Italia non fosse abbastanza.
Sembrava una corsa contro il tempo, da un lato il bisogno di avere riconosciuti i miei studi e la possibilità di trovare il lavoro per cui avevo studiato e dall’altro lato l’urgenza di lavorare per affrontare le spese e soprattutto per ottenere i documenti. Continuava a crescere in me, anno dopo anno, il desiderio di tornare in Ucraina, riabbracciare mamma e papà e tutti i miei cari fino a quando, lo scorso 24 febbraio, è scoppiata la guerra e tornare in Ucraina era davvero impossibile. Quel giorno ho guardato mio marito negli occhi dicendo “Dobbiamo fare qualcosa”. Mi sentivo a pezzi. La mia vita era sottosopra ma non potevo restare senza far nulla. Grazie a una cara amica polacca abbiamo organizzato una raccolta di beni di prima necessità: medicine, alimenti, pannolini e creme per bambini, batterie e torce. L’intero comune mi ha aiutata, sia la comunità ucraina che tante famiglie italiane. Abbiamo raccolto tantissimo materiale utile da spedire con dei tir in Ucraina, raccogliendo donazioni di tanti altri comuni vicini che hanno accolto con generosità la nostra iniziativa. Un giovane ragazzo di origine cinese, che vive nel nostro comune e che qui ha un’attività di vendita, ci ha anche gratuitamente offerto i magazzini del suo negozio per depositare la merce, oltre ad aver partecipato con altrettante donazioni. Dopo una settimana di raccolta, impacchettamento e divisione di quanto ricevuto, tutta la merce è stata caricata sui tanti e tanti tir e portata ai confini con l’Ucraina. Insieme alla mia amica siamo andate fino in Polonia per portare personalmente il carico di indumenti e alimenti, consegnandolo a chi lo avrebbe poi distribuito alle persone più fragili in Ucraina. Questa guerra mi ha fatto perdere tante persone care, ma anche trovare altrettante persone che sono state per me come sorelle. Ho ricevuto una grande accoglienza e un grande supporto dall’Italia, che considero la mia casa, e ne sarò sempre grata. Per tutta la vita. La tragicità e la paura della guerra ci hanno ricordato come non esistono differenze. Persone con origini cinesi, ucraine, polacche, italiane e tanti altri Paesi si sono uniti con lo stesso obiettivo: aiutare chi era in difficoltà e non restare indifferenti!